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di
Dragan Travica
CASA E’ UNA SOLA
Domenica, 8 Marzo 2015
Dico sempre che la vita è bella e in effetti lo è, nel senso più romantico del termine non ci sono dubbi che lo sia. Ci vuole coraggio ad affrontarla perchè c’è sempre e comunque un prezzo da pagare. E chi più l’affronta con coraggio, chi più si espone, chi più la prende di petto (o di pancia per i più emotivi) si renderà conto che il prezzo da pagare è come quello che si trova alla reception di un bell’hotel quando si fanno i conti col frigobar, o come quando si va a pagare un pieno di benzina ad una stazione di servizio in autostrada (qui in Russia però ammetto che la benzina costa decisamente meno che in Italia). Insomma, anche se il paragone (ironico) fa un po’ sorridere e/o pensare “ma questo che cazzo dice?”, credo che abbiate capito il concetto.
Sto tornando da una trasferta interminabile. Kemerovo, Siberia piena. Quattro ore di fuso orario da Belgorod e tante ore in aereo, troppe. Sono ormai lontani i tempi in cui ero eccitato al momento del decollo, ora “odio” gli aeroporti, gli aerei, il controllo passaporti e tutto il resto. Così, dato che mi sono rotto sia di leggere sia di guardare film, mi viene da pensare. Come quelle scene toccanti in cui si vedono le persone che guardano fuori da un finestrino con uno sguardo assorto. Qui fuori è buio pesto quindi c’è poco da guardare.
E’ l’otto marzo oggi quindi donne, Tanti Auguri! E ai fiorai, “vi sorride anche il culo oggi eh?”.
Ancora due mesi scarsi e torno a casa. Non ho mai avuto così tanta voglia di casa mia come in questo periodo. Non sono mai stato una persona che dice “mi manchi”, mia sorella e mia mamma ne sanno qualcosa, e di insulti ne ho già presi abbastanza per questo. Non sono mai stato una persona che si lamenta se non ha qualcosa (perchè credo che a tutto c’è una soluzione) e soprattutto non ho mai pensato che potessi aver così tanto bisogno di qualcosa come in questo momento. Che poi non è qualcosa. Sono la famiglia, sono i miei migliori amici. Sogno anche solo passare una serata attorno ad un tavolo con loro, con le infradito ai piedi, una t-shirt colorata, dei pantaloni corti e Ciao, tutto il resto fuori.
La mia scelta di allontanarmi da casa è stata fatta per inseguire “la mia stella”, ed è stato meraviglioso. Tutto. Il brutto e il bello, la paura e la gioia, il dolore e la serenità, la sconfitta e la vittoria. E continuerei con i paragoni per almeno venti minuti, giuro. Crescendo, ogni tanto, ci si ferma e ci si volta indietro, anche solo per un attimo, e si capisce che c’è questo maledetto prezzo da pagare. Prima o poi bisogna pagarlo.
Ora sembra che mi voglia crocifiggere per pagare sto cazzo di prezzo. No, assolutamente no. Sono stra super mega fortunato a fare quello che faccio e ad avere la vita che ho. Ne sono pienamente consapevole e me lo ripeto ogni volta che subisco una giornata. “Subire una giornata” è il mio modo di dire quando sia hanno le classiche “giornate no” (adoro le virgolette, se state con me un quarto d’ora noterete che gli indici e i medi delle mie due manone si agitano spesso, quindi fatevene una ragione). Però cazzo, quanto mi manca Casa. E per Casa, sapete cosa intendo. Quanto mi manca “un attimo”, quell’attimo in cui si ferma tutto e puoi finalmente condividere del tempo con le tue persone, con le tue cose, la tua quotidianità, il tuo bar dove vai a prendere il caffè, la rotonda deserta in cui derapi un po’ con la tua macchina (in Russia sono rimasti ancora ai semafori), ad una bella chiacchierata in italiano, ad un bel “Vaffanculo” senza rancore, al divano bianco-panna (così scrivono i cataloghi) in soggiorno, al sedersi ad un tavolo all’aperto, a bere una Moretti ghiacciata. E anche in questo caso andrei avanti ancora per molto.
Vi dico tutto ciò perchè semmai avrete queste sensazioni e questi pensieri, non preoccupatevi. Ne varrà la pena. Ne varrà la pena per ogni secondo che avrete vissuto. Per quanto io senta la mancanza di tutto quello che ho scritto qui sopra, tanto è il desiderio per queste ultime. E il desiderio di riabbracciarle mi fa capire quanto preziosa sia la vita e tutto quello che ho costruito in essa e con essa. La famiglia e l’amicizia proteggetele sempre, niente è come loro. Nessuna vittoria, nessuna medaglia, nessun successo. E quando vi sentite un po’ vuoti, desiderate queste cose, vogliatele fortemente anche se per il momento non le potete toccare. Sarà durissima, vi giuro che sarà fottutamente dura ma arriverà il giorno in cui le toccherete, le stringerete forte, così forte da trasmettere questa energia a chi vi sta di fronte, a chi vi sta attorno e poi…poi sarà come se non vi foste mai staccati.
NOSTALGICA FELICITA’
Mercoledì, 29 Aprile 2015
Eccomi in viaggio verso casa! Sono molto felice di tornare a casa!
Come spesso mi capita quando lascio qualcosa e quando saluto e abbraccio qualcuno dopo un lungo viaggio insieme, mi invade un’ondata imponente (come l’onda finale di Break Point) di pensieri dolci e nostalgici. Ammetto che è una sensazione che mi rende molto orgoglioso di chi e cosa sto salutando, di quello che ho fatto, di quello che ho vissuto, di quello che ho condiviso, di quello che ho lasciato e di quello che ho ricevuto.
Belgorod per me è stata una medicina morale. Non credevo una volta lasciato il mio paese, dove si sa che noi italiani siamo molto focosi, di trovare persone così passionali, coinvolte e così sensibili in una terra che a noi sembra, e sottolineo sembra, molto fredda. E non intendo a causa del clima, su quello non c’è dubbio!
Sono già passati due anni da quel primo giorno e oggi posso dire con grande fermezza di aver fatto un’esperienza unica, di aver conosciuto alcune delle più belle anime di tutta la mia carriera pallavolistica, anzi, oserei dire di tutta la mia vita.
Non saprei da dove iniziare per cercare di trasmettervi il valore umano dei miei compagni di squadra. Ho detto mille volte che la mentalità che ho trovato qui è decisamente diversa da quella più occidentale, a volte è davvero lontana anni luce da quella a cui siamo, a cui ero abituato. Faccio un passo indietro: se devo comprendere anche le persone che ho conosciuto fuori dal mio spogliatoio diventa ancora più difficile spiegare. All’inizio di questa mia esperienza, ma anche alla fine spesso e volentieri, andavo al supermercato e non capivo perchè la cassiera faceva così o perchè una persona faceva colà o perchè quell’altro diceva su e poi giù e così via. Parlo di comportamenti, gesti, smorfie, modi di fare. Io volevo capire, e sono maledettamente testardo quando mi metto in testa di dover arrivare ad una conclusione, ma niente, non arrivavo a nessuna spiegazione logica. Finché un giorno una persona del posto, capendo il mio disappunto, mi disse: “Dragan, non potrai mai capire pienamente i comportamenti delle persone russe, non potrai mai capire a fondo la nostra mentalità, non potrai mai comprendere definitivamente questo enorme e variegato paese, a volte non lo capisco nemmeno io…devi solo credere in queste persone, devi credere in questo paese!”. Beh, sembrano parole poco esaurienti in prima impressione, ma lì e in quel momento quelle parole, alle mie orecchie, erano le più azzeccate che abbiano mai sentito. Wow!
Ho profondamente adorato quello spogliatoio sentendomi perfettamente inserito, fin dal primo momento. Eravamo sempre sulla stessa lunghezza d’onda. Non vedevo l’ora di aprire quella porta, salutare i miei compagni e dire “Hey, privet komanda, davay music!”. Così accendevo lo stereo e deliziavo “il pubblico” anche con qualche canzone italiana, che apprezzavano sempre particolarmente.
Ho lavorato con gente seria e professionale, ho giocato con giocatori fenomenali, con dei campioni puri, ho conosciuto persone vere, ho imparato tanto, ho lasciato un bel pezzo di me e voglio che rimanga per sempre lì con loro, in qualche angolo dello spogliatoio a fargli compagnia. Ieri è stata una dura sconfitta (purtroppo abbiamo perso la finale scudetto contro la fortissima Dinamo Kazan dopo una partita bellissima) ma vi posso giurare che è stata più dura realizzare che da lì a poco avrei salutato quella che per due anni è stata una seconda famiglia. Non è sempre tutto filato liscio, non sempre è stato facile, ma la voglia di costruire e di volerlo fare sempre insieme mi ha fatto sempre sentire al sicuro, forte; io mi sentivo importante per loro e loro si sentivano importanti per me, importanti l’uno per l’altro. Una Squadra. Komanda!
Mi mancheranno così tante cose, ma non le voglio condividere queste ultime, anche perchè sono difficili da spiegare e di conseguenza difficili da capire quando non si vivono in prima persona, perdonatemi. So che capirete. Rimarranno sempre tra me e i miei compagni. Cose che a volte c’entrano poco con la pallavolo, ma c’entrano coi rapporti umani e con le emozioni condivise insieme. Quelle cose che rimangono per sempre, come gli abbracci di stanotte. Forti, prolungati, che parlavano da soli.
Grazie Belgorod. Grazie Belogorie. Grazie ai tifosi che ieri, dopo una finale scudetto persa, ci hanno aspettato fuori dal palazzetto per poi dimostrarci il loro affetto con un interminabile e commovente applauso. Gli applausi glieli abbiamo fatti noi!
Spasibo. Pakà.
Dragan.
P.S. Una canzone che mi fa esaltare un po' dice: “I’m ready for the start of something new, I’m ready to depart from what make me blue” (diciamo azzurro invece che blue). Azzeccata direi.
A presto.
UN KOALA E DUE VITTORIE
Sabato, 30 Maggio 2015
E’ vero, il titolo non mi è venuto fuori bene. Mi sono pure sforzato, è questo il bello. Facciamoci una risata.
La stagione azzurra è ufficialmente iniziata! Credo che in tanti ne siamo contenti. In tantissimi!
Australia, Adelaide. Anzi ora mi trovo in aereo e vi sto scrivendo da tanti mila metri sopra il cielo. Siamo decollati da poco e ci aspettano circa una trentina d’ore di viaggio. Parola d’ordine: “Doc (che sta per Dottore), pasticca grazie!” Non pensate male, la pasticca in questo caso sta per sonnifero. Voglio vedervi a voi, dopo un film, dopo un’altro film, dopo un po’ di lettura, dopo un po’ di chiacchiere tra compagni di squadra e compagni di viaggio (si trova gente simpatica in aereo), un po’ di pollo in scatola (mmm…), un paio di giretti in bagno in cui, noi spilungoni, dobbiamo stare in isometria per fare pipì, mal di gambe sempre in crescendo ora dopo ora, cosa fareste. Dormire, anzi riuscire a dormire (perchè spesso è un’impresa), è la cosa migliore da fare e la chimica in questi casi estremi aiuta.
Io la pasticca non l’ho ancora presa, così posso raccontarvi qualcosa di questa prima tappa di World League 2015.
Beh…devo dire che per quel poco che ho potuto percepire in questi giorni qui ad Adelaide, a stupirmi, è stata l’ospitalità che mi ha trasmesso questo popolo. Semplicemente da ammirare. Chiunque incontri, ovunque vai e in qualunque posto entri le prime parole che ti senti rivolgere sono. “Hey man, how are you?”, con un bel sorrisone in allegato. A me ha fatto riflettere. E ovviamente ho apprezzato molto.
Siamo stati ospiti anche dalla Console Italiana. Siamo venuti a conoscenza che qui in South Australia c’e una gran bella fetta d’Italia: ben centrotrentamila italiani! E devo dire che durante le partite si sono fatti sentire.
Durante un viaggio di ritorno palestra - hotel, in pullman, ci siamo fermati in una zona molto verde e alberata, piena di piante di eucalipto. Si, proprio così, abbiamo scovato un koala. Dolcissimo. L’autista del bus è stato fenomenale e ci ha regalato questa gioia.
Ad Adelaide è quasi cominciato l’inverno. Qui le quattro stagioni iniziano il primo del mese e non il ventuno come da noi. Va detto che il loro inverno è molto primaverile, infatti in questi giorni a volte c’era bisogno di una felpa e a volte no, ma niente di più pesante.
Due partite, due vittorie! Siamo partiti col piede giusto. Sono contento, dopo tre settimane di lavoro molto intenso è fantastico tornare a casa col bottino pieno. Non siamo ancora belli da vedere, e in questo momento ci sta, sarebbe strano il contrario. Si respira un’aria pulita in palestra e fuori, e quando si viaggia e si sta insieme per molto tempo è fondamentale respirare pulito. Le persone per dare il massimo devono stare bene, figuriamoci quando si tratta di un gruppo di persone che deve, anzi vuole, “suonare” insieme. Sapete che mi piacciono le metafore ma giocare insieme in fondo è come suonare in un’orchestra. Non aggiungo altro perchè per ora va bene così. E’ stato bello venire qui dall’altra parte del mondo, conoscere bella gente, andare in palestra con bella gente, giocare e vincere. E’ stato bellissimo stare con questi ragazzi.
Ora però torniamo a casa e siamo tutti doppiamente felici…Pesaro e Bologna ci aspettano!
Sono cotto…ragazzi vi lascio, forse non ho nemmeno bisogno del sonnifero per appisolarmi un po’.
Forza Italia e grazie Adelaide!
CADIAMO PER RIALZARCI
Martedì, 23 Giugno 2015
Abbiamo lasciato l’Italia. Dopo Firenze, 24 ore a casa per stare, anzi, per salutare i nostri cari e via di nuovo. Anche questa è la World League, o meglio, questa è la vita di un atleta.
Non c’è mai il tempo per riposare o per staccare, tra il viaggio per tornare a casa, tra le cose che ci sono da fare quando torni a casa (dopo che non ci stai per un po’) e il viaggio per tornare in ritiro, c’è appena tempo per, come ho fatto io, una grigliata in compagnia, in buona compagnia, birretta fresca e un bel gelato, che d’estate se potessi mangerei anche a colazione.
Il mio modo di staccare la spina anche se solo per 24 ore è quello di stare bene. Stare bene. Circondarmi di bella gente e di energia positiva. Mio papà organizza ogni anno un Camp di volley (il Camp Volleyteam a Porec, in Croazia) per ragazzini e ragazzine e ieri sono riuscito ad esserci. Mi è venuta voglia di tornare bambino. Mi ha impressionato come i più piccini si divertano ma allo stesso tempo come vivono il momento. Concentratissimi e completamente conquistati dal presente, senza nessun pensiero del prima, del dopo, niente. Solo quel momento. Noi più grandi possiamo imparare tantissimo dai bambini, spesso lo sottovalutiamo.
Comunque io mi sono preso un bel po’ di quell’energia, mi sono rimesso la polo Italia lavata e stirata dalla cara Mamma e sono ripartito.
La prossima tappa sarà in Serbia, poi si volerà in Brasile. Quello che mi porto dietro di queste settimane in Italia è ovviamente…tutto. Anche quello che mi, ci ha fatto male. Ce lo teniamo dentro perchè abbiamo anche questa responsabilità, ovvero quella di soffrire, di non mollare, di tenere duro, e di farlo in silenzio senza togliere lo sguardo dalla nostra Stella. Il resto è polvere.
Ci portiamo nel cuore la serata del Foro Italico. Nessuna parola può descrivere, come lo meriterebbe, quel fantastico venerdì sera. Il posto, la maglia, i colori, il vento, i profumi, il rumore assordante nel tie-break, le facce, gli occhi, i denti e la gente, la gente, la gente. Non c’era posto migliore al mondo dove stare. Credo che sceglierò una foto di quella serata e la farò stampare talmente grande da riempire una parete di casa mia, e quando la guarderò, anche a qualche anno di distanza, mi fermerò ancora qualche secondo a fissarla. Come una cosa che vedi, ti colpisce, e ti fermi a guardarla. Rileggete quest’ultima frase, per favore, e coglierete il senso.
Lo sapete ormai abbastanza bene che di pallavolo giocata non mi piace molto parlarne quando scrivo. I miei concetti, a volte, sono talmente profondi, intimi e complicati che non riesco a spiegarli. Spesso non voglio nemmeno condividere tutti i miei pensieri, perchè credo che bisogna averne cura, bisogna difenderli, e bisogna coltivarli, e poi, forse, condividerli ma solo quando è il momento giusto. A volte è un percorso lunghissimo, a volte no, a volte nemmeno arriva quel momento. Ma l’importante è sentirlo. Sentire che sta arrivando. Di sicuro so solo che non bisogna mai, mai, mai farsi condizionare da niente e da nessuno. Questo è il rispetto che ognuno di noi deve nutrire per i propri sogni. Sono nostri, sono intimi, devono essere imperturbabili.
Noi stiamo costruendo, cadiamo, ci rialziamo e saltiamo, poi cadiamo ma se ci rialziamo allora risalteremo e se ricadremo ancora ben venga. Io cadrei miliardi di volte per poi saltare.
Siamo sul pullman, tutto bene. Vedo gente che parla e ride, gente che dorme. Io sono bello sveglio quindi vado da quelli che parlano.
Ciao a tutti.
AZZURRO MACCHIATO
Giovedì, 6 Agosto 2015
Sono disteso sul parquet di una palestra nella periferia di Rio de Janeiro, non sto nemmeno facendo stretching, guardo l’infinito assorto nei miei pensieri. Penso a quanto è pesante questo momento, a quanto tutto si muove al rallentatore, a quanto è teso l’ambiente che mi circonda, anche il mio sorriso lo è. Mi disincanto pensando che domani ci sarà tutto il giorno libero e mi farà bene alla testa. Mi alzo e vado sotto la doccia.
Cena in hotel. C’è un ristorante italiano proprio a poche centinaia di metri, quindi a cena decido di non abbuffarmi. Avevo una gran voglia di pasta e pizza italiana. Così, in compagnia, a pancia mezza vuota ci incamminiamo. Alla nostra sinistra ci sono le onde dell’oceano che fanno sempre un rumore affascinante, c’è energia positiva. Ci sediamo, sono più o meno le 22.00, ordiniamo del cibo italiano e leggo un messaggio di Mauro che dice di rientrare entro le 23.30. Lo rileggo e lo comunico alla squadra. Sono perplesso, siamo perplessi. Dentro al ristorante fa eco questa frase: “Il giorno dopo è libero, perchè alle 23.30?”.
Solitamente non ci era mai stato dato un rientro preciso quando il giorno dopo era libero, o comunque non ci era mai stato dato prima della mezzanotte. Ecco perchè sono rimasto perplesso e un filo infastidito perchè da lì a poco più di un’ora dovevamo rientrare. Era sabato, la domenica sarebbe stata libera, e la partita d’esordio sarebbe stata il mercoledì. Non capivo il senso di quel messaggio, o meglio, non ne capivo un senso costruttivo. Quella serata e il giorno dopo le avevo pensate come gli ultimi momenti di svago prima di entrare definitivamente con la testa nella finale, sapevo che avrebbe fatto bene un po’ a tutti, così ho scosso la testa e ho smesso di dondolarmi sulla sedia, sbuffando. Ricordo perfettamente che il giorno precedente a quella sera mi sono sentito dire, non dai miei compagni di squadra, di provare oltre che ad allenarci bene anche di rilassarci un po’, di alleggerire la testa, di sfruttare i momenti liberi, “poi da lunedì tutti con la testa nello scatolone”. Quella frase mi risuona ancora oggi.
La mia mente, quando faccio per posare il cellulare sul tavolo, va alla partita del Foro Italico contro il Brasile, anzi al giorno prima. Sulla strada verso gli spogliatoi, prima dell’allenamento di rifinitura, mi viene comunicato che dopo la partita (quella partita, come ricorderete, finì molto tardi) potevamo mangiare dove volevamo, che eravamo liberi e che, addirittura, potevamo dormire fuori dall’hotel. Non mi era mai successo, in quasi otto anni di Nazionale, di avere il permesso di dormire dove volevo durante un ritiro, per di più a due giorni da una partita, con uno spostamento di un paio di centinaia di km e due allenamenti in mezzo. Si perchè venerdì giocammo al Foro Italico, ma la domenica si replicava a Firenze, sempre contro il Brasile. Non sto qui nemmeno a giudicare se era giusto o meno, non sto a dire se abbiamo fatto tardi o meno e se qualcun ha dormito fuori o in hotel. Non è questo il punto. Odio giudicare, ma amo dire quello che penso, a modo mio, e in questo caso è giusto farlo anche in maniera completa, perchè di completo ultimamente c’è stato proprio poco.
Torniamo a Rio. La premessa è importante: l’ambiente era molto teso, ormai da tempo, da troppo tempo e i famosi “penso ma non dico” erano all’ordine del giorno. In questo preciso istante mi viene in mente l’immagine del bruco che mangia una mela caduta a terra, e piano piano marcisce. C’era poco dialogo, c’era incoerenza, c’era egoismo, staff e giocatori camminavano su due binari diversi, distanti e in direzioni opposte. Non ci si guardava nemmeno più negli occhi. Io personalmente stavo soffrendo, sia per come stavamo in campo, sia per come ci stavamo preparando ad una finale, sia perchè volevo fare, fare e ancora fare ma c’era come se qualcosa mi tenesse e mi tirasse indietro e una volta voltatomi non vedevo nessuno. Non riuscivo a trovare risposte ai mille “perchè” che mi giravano per la testa. Sembrava di vivere una convivenza forzata. Una sensazione bruttissima, soprattutto nello sport. Sono convinto ancora oggi che stessimo soffrendo tutti tanto. La verità, in poche parole, è che non si doveva arrivare a quel punto. Invece ci siamo arrivati, e di peso.
Al ristorante, dopo aver ricevuto quel messaggio, si chiacchierava, si scherzava e si mangiava del buon cibo italiano. Non volevamo tornare in hotel, non lo credevamo giusto in quel momento, il giorno dopo era senza allenamenti e volevamo respirare un po’ di libertà e un po’ di spensieratezza. Onestamente non c’era davvero niente di male nel farlo. Avevamo voglia di stare ancora insieme quella sera, si stava davvero bene. Ovviamente eravamo pienamente consapevoli che stavamo disobbedendo ad una regola, ma in quel momento ci sentivamo tutto tranne che in colpa. Anche questo mi ha fatto pensare. Ci alziamo, prendiamo un taxi e andiamo a vedere un quartiere caratteristico di Rio, con un bel panorama di luci dall’alto, una scalinata tutta colorata e molto artistica, facciamo qualche foto mentre passiamo in mezzo a tre bambini che a piedi nudi giocano a calcio in mezzo alla strada. Tra una battuta e l’altra finisce la scalinata e decidiamo di sederci ad un tavolo e ordinare la classica bibita brasiliana, la Caipirinha. C’era davvero un bel clima, finalmente. Esce anche qualche confidenza sul momento che stavamo vivendo, condivisione di molti pensieri e in qualche modo stavamo caricandoci per fare una finale al meglio delle nostre capacità, che in quel momento non erano sicuramente le nostre migliori di sempre. Ma dovevamo e volevamo provarci. La medaglia era alla nostra portata.
Lo sapete anche voi quando si passano quelle serate in compagnia, fatte di poco, di quel poco che basta, di chiacchiere e spensieratezza, e una volta tornato a casa si ha la sensazione di aver passato un momento piacevole, leggero, utile, lo ripeto, utile. In quell’istante, ironia della sorte, veniamo beccati, ovviamente inconsapevolmente. L’avremmo scoperto l’indomani.
Già dalla mattina seguente sento che qualcosa non va, ma decido di non pensarci. Arriva sera, riunione dell’ultimo minuto. Ci sediamo e l’ultimo chiude la porta. La comunicazione era quella che mi aspettavo. Qualcuno dello staff quella notte ci ha visto attorno a quel tavolo verso le due e il giorno dopo lo ha detto all’orecchio di Mauro Berruto. Era quindi appurato che là fuori non eravamo solo in quattro. La conoscete anche voi quella frase che recita “la legge è uguale per tutti”. Non vi viene da sorridere anche a voi adesso? Forse sono dettagli, ma io sono pignolo. Mi sono sentito spesso dire che staff e giocatori sono due cose diverse, ma ho sempre preso le distanze da questa teoria. In una squadra si è tutti uguali.
La mattina successiva l’aereo che torna in Italia ha quattro posti che ci aspettano.
Dopo la riunione me ne torno in camera. E’ stata una notte infinita e insonne come il viaggio per tornare a casa, e i pensieri formavano un tornado inesauribile. Credo che potrei scrivere un’enciclopedia se mettessi nero su bianco tutto quello che mi è passato per la testa in quei giorni. Uno dei tanti era la sensazione di aver subito un’ingiustizia. Mi spiego meglio: sono pienamente consapevole di aver disobbedito ad una regola, e sono pienamente d’accordo che quando si disobbedisce ad una regola, giusta o sbagliata che sia, bisogni pagare. E mi sembra di aver pagato più che sufficientemente. Credo fosse giusto prendere provvedimenti nei nostri confronti, come credo anche che se ne potessero prendere molti altri e diversi da quello inflittoci. Ma è successo quello che è successo e andava accettato. Ho avuto l’onore di passare abbastanza estati in Nazionale per averne viste di tutti i colori. Di cotte e di crude. I miei occhi hanno visto molto peggio, le mie orecchie hanno sentito molto molto peggio rispetto a quello che è successo quel sabato sera di Rio. Era palese che ci fosse dell’altro in quella punizione. Ogni giorno che passa mi rendo sempre più conto che le motivazioni non sono state solamente disciplinari…anzi. Quasi mi vergogno a dirlo, ma lo penso, è più forte di me. Non so se quella decisione, prima pensata, ragionata, e poi concretizzata una ventina d’ore dopo l’accaduto, fatta dall’allenatore e condivisa dalla Fipav, sia stata un decisione di forma, di convenienza, autoritaria, politica, rancorosa, o sia stata la classica “palla al balzo” da calciare di collo pieno, non lo so. Cioè lo immagino, ma non ne sono sicuro e quando non sono sicuro di qualcosa preferisco non esprimere opinioni.
Uscito da quella stanza ho deciso di prendermi le mie responsabilità, in silenzio. Senza se e senza ma. Sono state settimane in cui ho parlato poco, non ne avevo voglia, avevo solo il desiderio di starmene a casa con le persone che con uno sguardo hanno capito tutto e mi hanno abbracciato. Mi sento abbastanza lucido e abbastanza maturo da capire che bisogna prendersi sempre le proprie responsabilità, soprattutto quando queste responsabilità pesano e bruciano come i carboni ardenti. L’ho sempre fatto e continuerò sempre a farlo. Non ricordo altre volte in cui abbia disobbedito ad una regola nel mio percorso con la maglia azzurra, e se sono arrivato a farlo lì e in quel momento sono convinto che non sia successo per caso. Inconsciamente o consciamente nulla succede per caso.
Da quando ho lasciato quella stanza non ho mai avuto un confronto con nessuno, o almeno non l’ho avuto con chi ha preso quella decisone. Zero, vuoto assoluto. E’ finita così. Nemmeno il tempo di uno sguardo. Sarei falso a non dire che mi sarei aspettato un confronto, ma la mia non è una polemica, è solo una considerazione ovvia che faccio quando due parti hanno condiviso tanto insieme e in un attimo le strade si sono biforcate. Non è una questione di regole, non è una questione di logica, è una questione di pancia, di animo, di cuore. Di umanità. Altrimenti a che cosa serve costruire rapporti? Credo nei rapporti umani, mi sono sempre alimentato da questi, e spero di non smettere mai di farlo. Nemmeno dopo tutta questa storia.
Ho girato abbastanza grazie alla pallavolo, ho conosciuto persone di varie culture e varie mentalità. In Russia mi dicevano sempre che noi italiani parliamo tanto, gesticolando in continuazione. Credo faccia parte della nostra cultura. Comunicare è una cosa bellissima e sicuramente in Italia lo sappiamo fare molto bene. Mi sono reso conto però, molto spesso, che noi parliamo tanto senza guardare negli occhi. Abbiamo perso quella sensibilità d’animo fondamentale per avere fiducia nel prossimo e rispetto nel prossimo, che sono le basi per costruirsi e svilupparsi come popolo.
Per quella maglia ci ho messo la faccia, spesso e volentieri, e il cuore in ogni singolo secondo, in ogni singola palla. Lo voglio fare anche ora, in questo ultimo capitolo. Chi mi conosce come atleta sa che ho sempre fatto il massimo per dare il giusto esempio, dentro e fuori dal campo, e credo di aver sempre dato un buon contributo in questo senso. Ho dato tutto e tanto, volevo sempre stare in prima fila, soprattutto quando la merda non ci faceva nemmeno più respirare. C’è storia se mi penso con quella maglia addosso, ci sono un mare di cose belle da raccontare, ma non mi va nemmeno di elencarle perchè odio parlare bene di me stesso e non ho mai preteso una pacca sulla spalla da nessuno in vita mia. Mi sono sempre arrangiato, per voglia di farlo e a volte per forza di cose. Credo solo che non dovesse finire così, credo di non meritarlo. Questa sarà l’unica cicatrice che porterò con me dopo aver vissuto queste ultime settimane.
Voglio ringraziare chi c’era in quella camera d’albergo quella domenica dopo la riunione. Credo che quel momento, per quanto fosse triste, mi abbia fatto capire il senso della vita. Non dello sport, della vita.
Ringrazio Giovino, il mio eterno compagno di stanza. La mattina seguente, con la valigia in spalla, l’ho abbracciato per salutarlo e dopo tanto tempo mi ha fatto piangere. Nessuna parola, solo un lungo abbraccio. Ti conosce bene solo chi ti vede piangere. Pura verità.
MEHRABA
Sabato, 7 Novembre 2015
Premetto che questo post è più o meno una settimana che lo rincorro ma tra viaggi, allenamenti e partite l'ho dovuto rateizzare. Inizierete a leggere che sono a casa e finirete con me in aereo. Tranquilli non sono diventato un'illusionista.
Sono appena tornato a casa. Ho svuotato le buste della spesa che mi avevano ormai bloccato la circolazione del sangue (sapete anche voi cari/e casalinghi/e occasionali quei fastidiosi segni bianchi che si formano sui polpastrelli); ho lavato e steso i panni sudati di qualche giorno di allenamenti e partite, e infine mi sono levato i calzini. Mi da sempre un senso di libertà farlo. In questa giornata senza allenamenti sono riuscito anche a trovare una caffetteria italiana dove fanno un caffè espresso quasi degno di chiamarsi tale. Una rarità da queste parti. Sapete come si dice però “paese che vai usanza che trovi” e quindi bisogna sapersi adattare. Devo ammettere però che in ambito culinario qui in Turchia ci si adatta volentieri. La cucina turca non è per niente male. Il Kebap (rigorosamente scritto con la “p” finale) è ovviamente uno dei pezzi forti. Ce n’è di tutti i gusti e in tutte le forme: Doner, Adana, Iskender, Köfte e altri ancora, e sono davvero tutti un orgasmo per il palato. In Italia si trova solo il Doner Kebap, cioè quello che viene tagliato a fettine sottili e insieme a verdure miste, salse, yogurt e spezie per lo più piccanti vanno a riempire un bel pezzo di pane arabo (cioè una piadina) avvolto su se stesso. Quando si mangia il Kebap solitamente si beve l’Ayran, un mix di yogurt e acqua. Che schifo direte voi, e invece è proprio buono anche perchè lo yogurt turco è uno dei più deliziosi mai assaggiati in vita mia. E poi il tè, qui si beve in ogni momento del girono. Per i turchi è come l’ossigeno. Impressionante. Se penso ad un turco lo penso seduto a sorseggiare tè. Come non parlare poi del caffè turco: la prima accortezza è che una volta servito non bisogna mischiarlo (infatti viene servito senza il consueto cucchiaino del caffè espresso) perchè sul fondo si deposita proprio tutta la polvere del caffè che viene aggiunta quando l’acqua bolle. A me piace assai. E ancora, zuppe saporitissime e alcuni dessert che…mamma mia!!!
Ankara, capitale della Turchia, è un città molto grande, per un totale di circa 8 milioni di abitanti. E’ piena di uffici e povera di attrazioni, infatti anche se è una bella città, non ci sono molte cose da vedere. Qualche moschea degna di nota però c’è e guidato dalla mia infinita curiosità sono andato a visitarne alcune. Sono delle costruzioni molto affascinanti, enormi. Entrando si respira un’atmosfera pacifica. Le decorazioni che si trovano all’interno, sui soffitti e sulle mura, saltano immediatamente all’occhio. Alcune moschee sono antichissime ed è proprio curioso come l’uomo così tanti anni fa sia riuscito a costruire vere e proprie opere d’arte di un'originalità mozzafiato.
Poi, ad Ankara, si trovano diverse zone pedonali contornate da mastodontici centri commerciali (ben 34 in tutta la città!!!) e abbellita da numerosi ristornati e caffetterie. Delle zone nuovissime e all’avanguardia con tutte le comodità possibili immaginabili. Esempio: spesso il problema è trovare parcheggio perchè sono zone molto popolate ma niente paura, con 2 Euro, se proprio non ne puoi più di cercare un buco per la macchina, la puoi lasciare ad un tipo in pantaloni e camicia che te la parcheggia e te la riporta quando vuoi andartene. Internet è gratis ovunque e ti danno anche una copertina se decidi di mangiare all'aperto e senti fresco. Lasciare la mancia è una tradizione qui, spesso la si lascia volentieri ma a volte devo ammettere di no. Diciamo che soprattutto con gli stranieri non sono sempre molto ospitali e cercano sempre di fregarli. Ad esempio i tassisti a Istanbul sono dei fenomeni a sfruttare ogni situazione a loro favore sempre e solo per guadagnare qualche soldo in più. Bisogna stare sempre svegli.
A proposito di Istanbul, che città! Ho avuto la fortuna di passarci un paio di giorni e devo dire che è una città speciale, un mix di culture che non trovi da nessun'altra parte. Lo stretto del Bosforo la rende ancora più suggestiva; dal tetto di alcuni imponenti edifici il panorama lascia a bocca aperta, per poi non parlare dei ristoranti ad un passo dall'acqua. Istanbul è una perla ma il traffico la rovina decisamente. La popolazione si dice sia intorno ai 25 milioni di abitanti, quindi vi lascio solo immaginare. Per di più sembra che una famiglia, ad esempio formata da 4 persone, abbia 6 macchine. Fa ridere detta così ma quando vedrete le code che ho visto io vi verrà da piangere. Infatti per la maggior parte della giornata è una città invivibile, puoi farti anche un paio d'ore di taxi per fare 5 km. C'è la metro per fortuna ma il miglior mezzo di trasporto è il traghetto. Veloce ed economico, dove puoi vedere la città dall'acqua. Tra numerosissime moschee e case di costruzione antica spuntano dei grattacieli alti e moderni. Una vista unica.
Ormai sono qui da due mesi e anche se non è molto mi sono reso conto di quanto la cultura turca sia differente dalla mia e soprattutto quanto la religione musulmana abbia influito sulla mentalità di questo popolo. La cosa più curiosa, è che le differenze si trovano anche tra le persone che credono nello stesso Dio. È evidente che queste differenze si notano in Turchia come in altre parti del mondo, dove ci sono altre culture e religioni, ma qui mi è saltato all'occhio dal primo momento e la cosa mi ha fatto riflettere. A questo riguardo, durante qualche semplice chiacchierata da bar, ho percepito che alcuni si definiscono meno "estremisti" di altri. Non riuscivo a capire questo concetto fino in fondo. Mi sentivo dire: "Sì, sono musulmano ma questo non lo faccio". Anche se io non credo in un "Dio" ho grande rispetto per chi, invece, è credente. Però a volte penso che la religione abbia deviato la mente delle persone lasciando in ombra la vera natura di ognuno di noi. Forse per debolezza di noi esseri umani, forse per l'educazione insegnataci fin da bambini o forse perché lo fanno (quasi) tutti e quindi, quasi per inerzia, si tende a seguire la massa. Altrimenti ci si sente diversi, e spesso sentirsi diversi mette paura. Mi sembra che a causa delle difficoltà che la vita ci pone sembra come se ognuno di noi abbia bisogno di qualcuno o qualcosa a cui aggrapparsi. E lo capisco anche da un lato, ma non riesco a prendere parte di questa strana logica. Le persone stanno perdendo il desiderio di esporsi, di mettersi in discussione. Le persone cercano sempre più di nascondersi. A volte penso che per questo motivo si siano create le diverse religioni nel mondo.
Così mi piace pensare che nella vita bisogna cercare di conoscere e scoprire prima se stessi, amarsi ed accettarsi, avere un proprio credo, una propria fede, quella di credere in se stessi più che in "qualcos'altro". Vivere le proprie esperienze e imparare da esse, scoprire da sé i valori onesti e puri di una vita troppo piena di superficialità. Credere nell’energia tra le cose e le persone. Non fare quello che dicono e vogliono gli altri, ma fare quello che ognuno di noi si sente dentro, anche se a volte risulterà sbagliato. Avere il coraggio di ascoltarsi. E spesso sarà difficile, doloroso ma ne varrà la pena. Il coraggio vuol dire avere paura ma andare avanti lo stesso.
Anche nel volley ci sono alcune differenze rispetto ad altri campionati. La prima cosa che mi viene in mente è il pubblico che viene a guardare le partite. Poco, purtroppo. Nella Super Coppa Turca giocata qualche giorno fa ci saranno state si e no un centinaio di persone sulle tribune. Qui vanno davvero matti per il calcio. Ancor di più che in Italia. So cosa state pensando, sembrava impossibile anche a me qualche settimana fa.
Dopo una lunga preparazione abbiamo cominciato finalmente a giocare. Si viaggia, si gioca e si riviaggia e si rigioca. La vita dello sportivo è sempre poco sedentaria. Serve un buon libro, della buona musica, buona compagnia e sperare di beccare un buon posto in aereo. Io questa volta l'ho beccato quindi…Ciao!